IGNIS OMNIA DELENS

 

 

 

“Boves e la campagna circostante assunsero l'aspetto di un paesaggio infernale, abbandonato persino dai demoni...”       Renato Aimo,            comandante partigiano

“C'erano però altre decine di paesi come il nostro e con gli stessi problemi e la stessa situazione come Peveragno, Chiusa Pesio, Borgo 5, Dalmazzo ecc... Come mai Peiper si sia accanito contro di noi,  rimane un mistero che solo il processo al tribunale di guerra avrebbe forse potuto chiarire.”   

Bartolomeo Giuliano, comandante partigiano

 

 

 

Da sotto il sasso calciato dal pievano guizzò un lungo millepiedi nerastro. Con una corsetta svanì nei ciuffi d'erba a lato del sentiero.

     "Obbrobrioso, ma piccolo e solo. Ne ho visti di peggio," pensò Eymerich stornandovi lo sguardo più rapidamente di quanto quello non avesse fatto per acquattarsi. Per esperienza, sapeva che il male lo si avversa con efficacia solo superandolo celeritate. O meglio prevenendolo, se possibile.

     Poi degnò finalmente il pievano di una parola. La prima dalla greppia di Tetti Forfice, dove avevano legato i cavalli per proseguire a piedi. “Se quel vermiciattolo è un riflesso di cosa ci aspetta, prevedo una recognitio di tutto riposo. Voi non potete saperlo, padre, ma sono uso a ben altre prove.”


     L'altro abbozzò un franco sorriso. “So molto più di quanto non crediate; in fondo sono anni che ci giungono gli echi delle vostre imprese. Dovessi chiedere di voi nell'Agro - ma che dico! nel Cuneese e oltre - siate certo che ne avrei poche di risposte negative. Quanto alle bestiole di qui, chiedo venia se non sono all'altezza di quante ne affrontaste altrove e altrieri. Lo scorpioncino bruno dei nostri boschi, ad esempio, è così innocuo da potersi afferrare senza tema a mani nude. Fra l'altro, è osservando da vicino tutti questi insecta abiecta atque currentia che abbiamo capito cosa li accomuna: l'odio per la luce. Ma perdonate i miei accenni oziosi: sono scienze che avrete meglio di me.”

     Lucifughi, ma certo!” esclamò Eymerich additando macchinalmente dei massi lì vicino, come a designarli serbatoi di chissà quali immondizie. “Debbo ringraziarvi, mi avete illuminato sul perché io aborra a morte quell'orrendo brulichio.”

     “Grazie a me? Io non ho nulla da insegnarvi, Magister. Semmai il contrario.”

     “Ovvio, è fuori discussione. Ma non è questo il punto. Io alludevo al vostro ultimo rilievo, secondo cui gli insetti evitano la luce e viceversa anelano il buio come il più materno dei grembi. Converrete che ciò tradisce una palese origine diabolica.”

     “Senz'altro.”

     Per un attimo, Eymerich fissò con ribrezzo l'estremità bifida del proprio bastone da montagna. “Ne discende che io rifuggo, perdonate l'involontario bisticcio, ciò che fugge la luce. Come del resto dovrebbe fare qualunque cristiano degno di questo nome. E non vi fuorvii il fatto che quegli aborti zampettino anziché strisciare, cioè currant, come avete notato poc'anzi. Il male progredisce, padre. E quelle sono appunto serpi uno stadio oltre. Buffo, però: mentre afferro un concetto me ne sfugge un altro... Ho infatti scordato il nome del vostro villaggio, che peraltro vedo trovarsi proprio ai piedi del vulcano spento che stiamo scalando. Me lo ripetereste?”

     “Le varianti latine sono non meno di quindici, fra cronache, annali e documenti. Bovice, Bovixio, Bovesium, Bovese, per non citarne che alcune. Ma per noi è solo BOVES.”

     Ci vollero otto ciottoli e altrettanti calci, prima che dal cavo sottostante sbucasse una nuova e "ripugnante" bestia. Ma quando accadde, l'unico ricetto definitivo di una forfecchia con la pessima idea di fuggire dal nido scoperto, fu sotto le suole consapevoli del geronese.

 

 

Joachim "Jochen" Peiper, Standartenfuhrer della prima Leibstandare Adolf Hitler, ammira da piazza Italia i primi roghi appiccati dai suoi uomini. Pare soddisfatto del loro operato, ma non quanto se avesse già tra le grinfie quelli che chiama con sprezzo "banditi", "briganti", "ribelli". Intanto da sotto la visiera, alternando binocolo a occhio nudo (retaggi rommeliani?) si gode lo spettacolo: meglio di niente.

     Le case in fiamme brillano contro quelle iridi glauche da star hollywoodiana.

     Perché divo, si sente. Un divo piromane.

     È lo stesso volto pulito che, decenni dopo, una molotov carbonizzerà a sua volta fra le mura della sua villetta boschiva nell'alta Saona, irriconoscibile al punto da far dubitare sull'identità?

     In ogni caso quel giorno è lontano. L'unico incenerimento a cui va rivolto il pensiero è quello in corso, cieco e sistematico, che si prefigge di radere al suolo il paese per costringere quelli sui monti a scendere a valle e consegnarsi.

     Peccato ignori, il Maggiore, che per chi sta lassù i suoi mastini non sono che porci ai quali non piegarsi per niente al mondo. Idem per quelli quaggiù, che sanno bene da che parte stare. Qualunque sia l'entità della rappresaglia, che la recente restituzione di due prigionieri crucchi non ha comunque evitato, ma anzi assurdamente innescato.

     I sidecar sfrecciano e zigzagano come cimici irrequiete per vie, piazze, androni. I casali ancora intonsi attendono solo che si fermino, vi scendano squadre incendiarie improvvisate eppure meticolose, sfondino l'uscio e svuotino le taniche sul piancito. Poi basterà una scintilla ariana, una soltanto, perché l'ambiente diventi un enorme forno rustico che cuocia ogni cosa al suo interno...

 

 

Ramerus Rufus et Joannes Crux. Così era intitolato il primo paragrafo deI manoscritto che Eymerich aveva fra le mani. Leggere camminando lo irritava, ma prima di giungere alla grotta, dove il buio gliel'avrebbe impedito, voleva saperne di più su quei due "eroi locali" vissuti al tempo del Barbarossa. "Quale ardire! Latinizzare sia il proprio nomignolo che quello di chi lo scelse come sodale per l'impresa!", pensò sdegnato di quel Bertino Ramero, contadino cronista. "Titolo pretenzioso, per uno che avrà avuto affinità col demonio, dati ceppo e colore dei capelli". Ma come diffidava di quel lontano giovanetto, così era convinto che tanta leggerezza nell'arrogarsi nomi e meriti andava indagata a suo tempo, non certo a due secoli dalla morte. E quel cavaliere francese, Jean la Croix, doveva essere stato, se non eretico, quantomeno sviato, non vedendo nell'altro un alfiere di Satana... Ma sta bene, non poteva pretendersi che dei nobili incolti si premurassero di leggere i Padri o le Scritture.

     Tutti indizi, insomma, che denotavano superbia in Ramero e insipienza nel Francese. Naturale, quindi, che gli strascichi di certe commerci sopravvivessero a distanza di secoli. Magari proprio sotto forma di quelle visioni malefiche avute da alcuni pellegrini nella grotta, riferite poi al pievano. Che a sua volta aveva ragguagliato l'inquisitore, porgendogli il manoscritto perché potesse conoscere la storia e farsi un'idea... E un'idea il nostro se l'era fatta, sì, ma non certo rosea come l'altro sperava.

     A metà strada, bastonando la sassaia per fugare eventuali vipere nascoste, Eymerich decise di esternare al pievano le parziali conclusioni cui era giunto.

      “Sicché questo Ramé Rus, Ramero Rosso, Bertino o come accidenti si chiamava, per voi valligiani sarebbe morto in odore di santità. Al pari di Jean la Croix, che pure martire l'avete ufficialmente ma arbitrariamente eletto. Su quest'ultimo non ho abbastanza elementi di giudizio, ma per l'altro... Mi consta che nessun dottore si sia mai pronunciato pro rufo aliquo, specie se frutto, come nello specifico, d'un amplesso fra un bianco e un moro. Né sognato di spacciarlo per santo. Non a caso fu Esaù, un fulvo, a perdere la prima primogenitura... Ma vi vedo perplesso: forse dissentite?”

     Sì, il pievano dissentiva su tutto. Pure, non potè che annuire accomodante.

     Eymerich spiò un istante dietro di sé. “Ed era proprio necessario portarsi appresso quelle due, diciamo guide?” gli chiese ammiccandogliele. “Che oltretutto sembrano più spaesate di me che sono forestiero, e avrei donde d'esserlo. Se fossi prevenuto, direi che ci seguono due lupi lussuriosi... Ditemi, sono tutti così irsuti e inquietanti, da queste parti?”

     “È solo per cautela, Magister, se ho stimato opportuna una scorta. Sembrano spaesati perché non hanno la vostra fede, nè la mia. Dopo i racconti di quanti affermano d'aver visto rinascere più volte il Drago nel suo antico nido, cioè la grotta meta del nostro cammino, a valle serpeggia la paura, nessuno escluso. Ma non temete, è gente incorrotta e generosa, che nel pericolo non esiterebbe a esporsi in prima persona, pur di salvarvi. Perché mettere a repentaglio la vita di un prelato par vostro, quando quattro occhi e braccia in più possono evitarlo? Anche se il mostro risorto fosse il frutto di menti traviate, come io credo e già vi dissi, vorrei comunque accertarmene di presenza. Ecco il perché di quel solerte messo inviato per chiedervi d'accompagnarmi, appena saputovi in transito dal Delfinato all'Agro Bovesano. Chi meglio di voi, infatti, l'uomo che al mondo ha più familiarità con le nere nidiate, potrebbe stanare il Maligno di lassù, ove ce ne fosse ancora traccia? Quanto al secondo quesito, be', dubito che i bifolchi dispongano, per radersi, delle lame di Avignone o Saragozza, Magister.”

     A Eymerich parve di cogliere una nota polemica, nelle ultime parole del pievano, ma tanto vaga da non meritare risposta. "Che quest'uomo sia stato alla corte avignonese e ne sia poi fuggito nauseato?" congetturò fissandolo in tralice. Del resto non poteva pretendere che ogni soldato di Cristo tollerasse pazientemente

quanto lui gli sfarzi eccessivi, pur ravvisandovi egli per primo un odioso retaggio gentilesco.

     Fra la quarta e la quinta giunsero in vista di quel cavum amplium et altissimum di cui parlava il manoscritto. In altre parole, l'ex «Garb du Draa» (Grotta del Drago) e attuale «Garb du Ramé e du Fransés» (Grotta di Ramero e del Francese), così ribattezzata dopo l'evento.

     Il pievano, ansante, sostò un attimo per rifiatare. Poi ripartì biasciando, più a se stesso che all'altro: “Forza, ancora un tornante e ci siamo.”

 

 

Cingolati e semoventi ce ne sono, sferraglianti per le vie o fermi in qualche piazza. Ma per oggi serviranno a poco, quantomeno in città. Basteranno benzina, cerini e olio di gomito. E ogni tanto del piombo per il vegliardo di turno a cui gira d'intralciare i biondi distruttori. Ma anche a chi non gli gira, in realtà. Ché intralciare, per loro, ha un'accezione molto ampia. Anche non opponendosi esplicitamente, basta darsela ed essere visto, per sentire un gelo improvviso lungo la spina, e poi più nemmeno quello.

     Ne sa qualcosa l'invalido di guerra Francesco Dalmasso, rafficato mentre scappava per i campi. Il suo corpo è ora lì, riverso sulle zolle, di spalle a un orrore che è solo l'inizio.

     Anche un certo Bartolomeo Ghinamo, sordomuto dalla nascita, è stato freddato a bruciapelo. La sua colpa, oltre all'handicap congenito, è l'aver tentato, come chiunque avrebbe fatto d'istinto, di spegnere le prime lingue che gli stavano devastando casa. Senza fare i conti, purtroppo, con quel mitra spianato a due passi.

     Perché con Peiper e i suoi esecutori rischi grosso, a usare l'istinto come arma. Idem se usi quella della ragione e della flemma, però. Insomma, se sei lì in questo frangente, e per giunta hai la jella d'esser vivo e italiano, rischi comunque.

     Dovunque i soppalchi, ingombri come sono di ciocchi e matasse di fieno, sono i primi a consumarsi e cedere. Dabbasso, muggiti e urla umane provano a squarciare il crepitio in espansione, che tuttavia li sovrasta.


     L'ala di un palazzotto di faccia al canale si annerisce a lutto, mentre gli interni, non visti, rosseggiano senza sosta... Ebbene sì, di fronte al fuoco i travi sono tutti uguali, siano essi nobili o miseri. Tutte potenziali esche infiammabili.

     Un soldato, prima di dar fuoco allo stabile della signora Corinna Cavallera, ne libera il canarmno dalla gabbietta, che vola via dalla finestra aperta. Vuoi per questo auspicio propizio, vuoi soprattutto per la scarsità di legno e masserizie a cui apprendersi, in gran parte la casa si salverà.

     Ma è un'eccezione. Altri drammi edilizi e umani — a centinaia — vanno consumandosi nel raggio di due chilometri o poco più. Tanti, è vero, ma comunque non abbastanza per la vendetta di Peiper. Per questo nei mesi a venire punirà ancora quel paese impudente, che ha osato sfidarlo. Se fosse uno Scipione direbbe Bovisium delendum est; ma siccome non lo è, BOVES KAPUTT! è ciò che abbaia. E poi ne è convinto: mostrare ai ribelli lo strazio progressivo delle loro case e famiglie — visibilissime dai roccioni e lo sa — è la meglio per renderli duttili, disposti alla resa.

     Questione di fredda psicologia.

 

 

     Contrariamente a quanto aveva pensato (il pievano non l'aveva informato al riguardo), Eymerich vide che il corridoio era rischiarato da torce infisse ad ambe le pareti. Dunque, seppur con maggior circospezione, poteva seguitare la lettura nell'antro. Ne approfittò. “Da quanto leggo nel manoscritto, il percorso si direbbe mutato parecchio, da allora. Non sento sotto i calzari quelle gobbe grosse come meloni di cui scrisse il Rosso.”

     Prima che il pievano glielo spiegasse, Eymerich lo capì da solo guardando meglio sotto di sé: il pavimento era formellato in lungo e in largo. Se ciò lo colpì negativamente, per quel che avrebbe visto dopo sarebbe addirittura orripilato.

     Sbucati che furono nello slargo, secondo Ramé teatro della cruenta battaglia contro lo sputafuoco, le molte torce presenti anche lì gli permisero di distinguere bene, contro una delle volte naturali, il cenotafio crocifero eretto in memoria del Francese ivi caduto. Ma se la croce, di per sé di fattura modesta, era stata lasciata spoglia dai pellegrini, l'opposto era per il piano circostante, ingombro di decine, se non centinaia, di ex voto in forma di statuine fittili e piccole icone.

     Sommersi da uno strato di monete e medaglie di vario pregio, i simulacri fermavano l'attimo in cui Ramé stilettò alla schiena il drago rampante mentre l'altro lo distraeva. Per rendere la passione, sotto la ferita erano dipinti rivoletti di sangue verdastro che ruscellavano sulle squame del dorso. Inoltre, in questo mancando di fedeltà al testo, sterno e ventre del mostro erano irti di spade minuscole, forse aghi modificati, da cui pure fluiva sangue in rametti.

     Era troppo, anche per uno conciliante come Eymerich. Un'improvvisa stizza gli defluì lungo le dita delle mani, che si strinsero a pugno sulla pergamena, gualcendola ai lati sin quasi a stracciarla.

     Accortosene, il pievano improvvisò una giustificazione. “Comprenderete, padre, che dopo l'impresa la Bisalta, e in specie questa grotta, divennero meta di pellegrinaggi non dico da ogni dove, ma quasi. Onde per cui si sentì la necessità di...”

     Eymerich esplose. “Necessità? Spianare e addobbare un luogo sacrilego è forse una necessità, malnati incoscienti!? Èdunque destino che dappertutto trovi cristiani che ignorano persino le più elementari norme ad vitandum haeresim!? Torme di pellegrini in un covo del demonio, quale follia! E che ne ingombrano il pavimento di osceni idoletti!”

     Alle parole seguirono subito i fatti. Fuori di sé, spazzò via col bastone e coi piedi la feccia cumulatasi in tanti anni. Senza distinzione, azzittendo la chiassosità di metallo, terra e legno artefatti. Per la prima volta voleva far scempio di oggetti anziché di impenitenti, offendere immagini che in altri tempi e circostanze mai avrebbe degnato di sprazzi iponoclastici. Ma lì era diverso, si trattava di santini fallaci, adorati dagli stolti di quelle e chissà quali altre contrade.

     Quindi gettò tutto in una larga fenditura non lontano dalla croce. Dovunque conducesse, sembrava fatta apposta per divorare oscenità. E forse lo era.


     Caduta anche l'ultima moneta, si sentì vibrare dal fondo un boato, a mezza via fra una cannonata, un tuono e un fiume in piena.

     Poi capirono cos'era: una cascata che fluiva in senso inverso. Non di acqua, ma di magma.

     Sgorgò dalla crepa in un attimo, spiovendo poi sul grande spiazzo su cui prese lentamente a dilagare.

     Travolse la croce, e la sommerse quasi per intero. Prima di venir deglutiti e fusi nel magma, molti simulacri e tondelli galleggiarono per un po' sul pelo incandescente.

     I quattro uomini indietreggiarono all'istante. Ma mentre i due chierici seppero dominarsi, i nativi, impietriti e in preda al terrore, occhi sgranati su quel fenomeno, latrarono: “U draa dla Bisimauda! U draa dla Bisimauda!” Quindi fecero parlare le gambe, volando prima lungo il corridoio, poi giù per i tornanti.

     “Cosa strillavano, quelle fiere deformi?” ringhiò Eymerich, in un misto di intolleranza linguistica ed etnica.

     “Credono che i saxa rubra et liquefacta siano l'anima del drago della Bisalta, quella che il mostro sprigionava sotto forma di vampate.”

     Eymerich scosse il capo. “Di bene in meglio: nonché superstiziosi anche stolidi, questi montanari. Però su un punto hanno ragione: qui c'è la mano del Maligno. Il drago che credettero di vedere anche quei pellegrini, in realtà è il fuoco liquido che ribolle nel cuore del monte, di certo un passaggio oscuro. La stessa scena, evidentemente, dovette presentarsi ai vostri "prodi", per quanto falsata dalle loro menti contorte... Ma ora sarà meglio andare, prima che ci raggiunga.”

     Si avviarono verso l'uscita, seguiti dal magma. Eleggendo il corridoio ad alveo momentaneo, era diventato un canale dagli sguaiati scoppiettii, da bacino che era. Ma lento abbastanza da potergli sfuggire senza correre...

     Se fiumana era, tutto poteva dirsi meno che incalzante.

 

 

Tardo pomeriggio.

     Dai tetti salgono colonne di fumo inusitate. Si forma una cortina. 11 cielo pare saturo di pece.

     Pochi morti sparsi. Molte macerie.

     Eppure, molte ore dopo l'inizio dell'operazione, nessuno èsceso di lassù, nessuno si è arreso. «La sorte dell'Italia sarà una lezione per tutti», è stata la prima minaccia radiofonica del Fùhrer dopo l'armistizio. Perciò, ipotizza Peiper, gli scolaretti arroccati chissà dove sulla Bisalta devono essere davvero duri di comprendonio, per non afferrare tale lezione... Per lui le cose sono due: o il gelo ha ottuso loro il cervello, o non capiscono il tedesco... Oppure entrambe.

 

 

Sulla via del ritorno, lontano dal torrente lavico, arenatosi anzitempo contro rocce e detriti, Eymerich si voltò indietro. Voleva sincerarsi che si fosse davvero fermato, e non dilimasse invece lungo la china. Vide soltanto una fumarola. Si levava all'altezza della grotta, e andava diradandosi sul fondo azzurro dell'incipiente ora quinta.

     A Tetti Forfice sciolsero i cavalli, rimontarono in sella e ripartirono per Boves.

     Eymerich sorrise sarcastico. “Cosa mi dicevate, padre, prima di partire? Che secondo le cronache bovesane quel vulcano sarebbe inerte da millenni? Simili fermenti farebbero pensare il contrario.”

     “E inerte era, in effetti, O almeno prima che gli tuffaste nelle viscere tutti gli oboli dei pellegrini. Il contatto l'avrà incattivito.”

     Eymerich fece spallucce e storse la bocca. “Anche se fosse, non è certo me che dovete incolpare, ma la pratica empia di venerare personaggi dalla dubbia fama. Pratica che, se non proprio voi di persona, certo molti artigiani e mercanti della vostra pieve aveva interesse a incoraggiare. E poi ve l'ho già detto: quelli non erano oboli, ma idoletti satanici! Mi duole dirvelo, padre, ma siete tanto idealista quanto ingenuo. Sferzavate le intemperanze di questo o quel clero senz'accorgervi che i primi spregiatori della povertà evangelica da voi predicata li avevate in seno...”

     Il volto del pievano era ora chiaramente contrito, nonché caduto dalle nuvole. “In vero non avevo mai pensato che qualche mio borghigiano potesse curare più la scarsella che...”

     “Molto più di qualche, a giudicare dallo sterco che abbracciava la croce. E sarà bene che d'ora innanzi ci pensiate eccome, padre. O ritornerò, e stavolta assai meno indulgente.”

     Fra breve Eymerich sarebbe tornato alla sua, di penisola. Quella italiana l'aveva stancato, con le sue miserie. Non che in Francia, Alemagna, o in qualunque altra terra visitata ne fossero mai mancate, beninteso. La sua era piuttosto nostalgia linguistica, voglia di tornare a blasfemie più comprensibili. Che parlassero il catalano, almeno.

     Prossimi alle porte del Ricetto, Eymerich riconsegnò il manoscritto spiegazzato al pievano, rivolgendoglisi per l'ultima volta. “Prima di separarci, vi rammento che Dio è magnanimo verso chi si smarrisce e poi si ravvede. Ma il suo ex generale no, è perfido sempre e comunque, anche con chi ha avuto la disgrazia di adorarlo.”

     Il volto già chino del pievano si abbassò ancor di più, sino a toccare lo sterno col mento. “Prometto a voi e all'Altissimo che espierò la mia cecità, se è questo che intendete.”

     Eymerich gli additò con lo stecco le mura rossastre, ormai a poche braccia. “Non alludevo tanto a voi, quanto al borgo e a chi vi abita, insozzati dalla macchia che sapete. Ammesso pure che le vostri torri possano arginare le arti mondane, contro quelle oltremondane non reggerebbero un secondo. Sotto l'ira infernale ho visto crollare fortezze ben più solide.”

     “Perdonatemi, ma non vi seguo.”

     “Voglio dire, se fossi incorso in tali e tanti errori quanto voialtri me ne aspetterei, di assedi del genere. E non è escluso che un giorno, Boves, subissata da forze inaudite, paradossalmente potrebbe rimpiangere l'antica piaga saracena e quella nuova degli Armagnacchi. Eppure dovevate saperlo...”

     Il pievano frenò il cavallo e fissò l'inquisitore. “Sapere... cosa?” balbettò, terreo in volto per quei terribili presagi.


     Eymerich spronò il suo, e: “Che la servitù a Mercurio, dio pagano dei pagamenti, prima o poi si paga…” concluse perentorio con triplice bisticcio. Ma stavolta, forse, da come ghignò gonfiando il riccio attorno alle labbra, sottilmente voluto.